Università degli studi di Pisa – Facoltà di Scienze Politiche
Anno accademico 2002-2003
Tratto dalla Tesi di Laurea di Elena Casciari dal titolo
UN’ISTITUZIONE LUCCHESE DELL’OTTOCENTO
L’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti
CAPITOLO II
LA QUESTIONE DELL’ABBATTIMENTO DEI PINI SUL LITORALE DI VIAREGGIO
Angelo Bertacchi, durante la sua narrazione delle vicende dell’Accademia Napoleone, affermava: “Fin dai primi mesi della sua esistenza, l’Accademia Napoleone veniva da più parti interpellata intorno alla metereologia del nostro territorio.”
Lo storico dell’Accademia Lucchese, iniziava in tal modo a descrivere le opere e gli interventi di Stefano Conti che, secondo Bertacchi, aveva avuto due grandi meriti: Essere stato uno dei primi a mettere in piedi, a spese proprie, un vero osservatorio metereologico che riusciva a fornire dati e previsioni piuttosto certi sulle condizioni metereologiche del territorio lucchese, e aver dato il via a una tradizione (quella dell’osservazione metereologica, appunto), utile sia per l’Accademia, che per il territorio stesso.
Questa tradizione venne portata avanti da Pierantonio Butori, canonico della Collegiata di Camaiore, a proposito del quale Bertacchi scriveva:
Di Pierantonio Butori, che fu di Camaiore, e Canonico di quella Collegiata, ci rimane ancora un opuscolo a stampa, e diverse lettere all’Accademia Napoleone da prima, poi alla R.Accademia Lucchese, quelle inedite, queste pubblicate negli Atti, intorno ai fatti da lui raccolti in ordine alle vicende meteoriche, e agli effetti di queste sulla pubblica salute, e sui prodotti agricoli. Abbraccia le ose che riguardano la pressione atmosferica, la temperatura la pioggia caduta, lo stato del cielo, la direzione dei venti, le aurore boreali, ed i terremoti.
In nota Bertacchi forniva anche alcune notizie biografiche su Butori:
Pietro Antonio Butori nacqui in Camaiore il 22 febbraio 1743 e visse in quella piccola città, dove fu Canonico della Collegiata, fino al 1826. Aveva fatto i suoi studi a Pisa, applicandovisi nelle scienze sacre, nelle giuridiche, e alle fisiche matematiche. […]
Il principale scritto del Butori è intitolato: Risultati metereologici di anni quaranta offerti e dedicati all’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti […]. E documento da tenere in gran conto sarebbe questo […] per chi massimamente prendesse a illustrare la storia dell’agricoltura lucchese.
Quando poi cominciò la stampa degli Atti della R.Accademia Lucchese, nel vol.I pubblicato nel 1821, leggesi una breve Memoria del Butori, nella quale fa alcune aggiunte all’opuscolo […]. E nel vol.III degli stessi Atti, venuto in luce nel 1827, si contengono altre due Memorie […]. Nel medesimo volume poi leggesi pure uno scritto: Fatti e ragioni comprovanti l’utilità d’una barriera di alberi lungo il mare del litorale di Viareggio […]; su di che essendo agitata una controversia assai viva, fu ventura che l’opinione del Butori trionfasse.
Il discorso di Bertacchi si fermava a questo punto e neppure durante il racconto dell storia dei primi anni dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti, lo storico dell’Accademia aggiungeva altro sulla polemica riguardante la barriera di alberi lungo il litorale viareggino.
In realtà, la questione della macchia viareggina era stata descritta in termini piuttosto precisi da Antonio Mazzarosa, nella sua opera Le pratiche della campagna lucchese. Mazzarosa, nell’occuparsi di alcune questioni agrarie relative al territorio del Ducato, affrontava il tema delle tempeste di libeccio e maestrale che, abbattendosi sul litorale, danneggiavano le coltivazioni costiere. Avvalendosi di testimonianze raccolte tra i più anziani agricoltori della costa, egli arrivava ad affermare che il danno provocato d tali venti era molto meno consistente quando, lungo la costa viareggina, esisteva ancora quella fitta barriera naturale di macchia mediterranea che ,purtroppo, a partire dal 1739, al fine di ridurre a coltura il suolo, era stata progressivamente abbattuta fino al suo taglio definitivo avvenuto nel 1770. Tale fitta boscaglia, profonda tre quarti di miglio e composta prevalentemente da querce, lecci, frassini e ontani aveva infatti fino a quel momento rappresentato una barriera quasi impenetrabile e di grande ostacolo ai venti. Successivamente il governo aveva cercato di porre rimedio a tale provvedimento mediante la semina, a partire dal 1747, di quello che avrebbe dovuto diventare un bosco di pini. Mazzarosa riteneva tuttavia che una simile selva sarebbe risultata meno efficace sia per la minor larghezza rispetto all’antica, che per la qualità degli alberi che la costituivano essendo essi in prevalenza privi di fogliame nella loro parte bassa ed infine a causa della lunghezza dei tempi di crescita degli alberi. Egli suggeriva di estendere la profondità della pineta lungo la spiaggia e di fare in modo che vi fossero sempre diversi ordini di pini disposti secondo linee parallele. Era inoltre indispensabile, a suo avviso, occuparsi maggiormente della cura di quelli esistenti al fine di evitare il diradarsi della boscaglia (cosa che stava succedendo proprio negli anni in cui egli scriveva). A tale scopo, era necessario che il Governo si riappropriasse delle terre sul litorale che, nel corso degli ultimi anni, erano state cedute a soggetti privati.
L’intervento di Mazzarosa testimoniava come la questione dell’abbattimento dei pini lungo il litorale di Viareggio fosse piuttosto sentita suscitando l’intervento di diversi interlocutori. I due attori principali, che in seno all’Accademia ebbero modo di esporre opinioni differenti su tale argomento, furono Carlo di Poggio e Pierantonio Butori la cui polemica prese avvio dalle affermazioni contenute in uno scritto di Butori di metereologia non edito negli Atti ma comunque destinato all’Accademia.
L’opuscolo del Canonico camaiorese non era altro che il racconto delle osservazioni metereologiche giornaliere da lui compiute negli anni compresi tra il 1777 e il 1817. Tali osservazioni, realizzate per mezzo del barometro e di altri strumenti, avevano permesso al Butori di considerare in modo piuttosto efficace le variazioni climatiche relative al territorio di Camaiore e di fornire una visione chiara della situazione metereologica del territorio di Camaiore e di fornire una visione chiara della situazione metereologica del territorio durante un periodo relativamente lungo.
Oltre a riferire le notizia climatiche, nel breve capitolo che riguarda l’andamento dei venti nella valle di Camaiore, Butori affermava:
I venti di Ostro, Libeccio e Ponente inclinante a Maestro, qua detto Provenzale, i quali vengono a questa Valle dal vicino mare, ci recano talvolta danni gravissimi ne’ prodotti delle campagne. Il nostro mare ha un letto sottile intersecato da alcune concavità, e prominenze ad una lunga distanza dal suo termine di spiaggia. Quando insorgono con veemenza i venti Meridionali le acque del mare rigonfiano, e s’innalzano a grande altezza sopra il loro fondo, le quali dalla rapida discesa e dalla pronta risalita nelle indicate concavità e prominenze, si sparpagliano torbidamente, e venendo poi a vedere sulla bassa spiaggia si spezzano in minutissime stille, le quali rimbalzano in alto, ed una parte non picciola ne rapisce l’impetuoso vento, che rade il suolo il quale […] seco lo convoglia trasportandole a lunghissime distanze entro la campagna, e le deposita in appresso sopra tutto ciò che gli fa opposizione nel suo corso, o sopra i terreni sottoposti […] ne fanno fede i vegetabili intrisi di sale sensibilissimo al palato di chi li gusta dopo una forte libecciata anche nelle situazioni non esposte al mare, ove penetrò il Libeccio con direzione riflessa. Ne fa fede il deperimento dei vegetabili stessi (cui molto nuoce il sale) in tutte le campagne immediatamente esposte al Libeccio, dopo che esso infuriò gagliardamente.
Il Libeccio quindi, secondo il giudizio di Butori, danneggiava le colture poichè depositava sui raccolti gocce di acqua marina cariche di sale che ne determinavano la rovina. Butori continuava:
In una Memoria che nel 1812 presentai all’Accademia Lucchese […] credei opportuno di far menzionare de’ disastri, che da cioò sono cagionati alle coltivazioni, ed ardii anteporre un rimedio con la piantazione di molti alberi selvatici in vicinanza del lido del mare, i quali giunti ad una conveniente altezza invilupperanno e arresteranno ne’ loro tronchi, ne’ rami, nelle foglie gli spruzzi d’acqua marina convogliata da’ venti, onde non potranno proseguire a danneggiare le campagne […]
Evidentemente ai suggerimenti del canonico fu dato ascolto perchè il governo baciocchiano, a partire dal 1813, si adoperò per ricostruire una macchia lungo il litorale viareggino:
La sementa delle piante selvatiche di Pini, Querce, e Lecci fu effettuata nella successiva primavera del 1813, ed in quella del 1815 fu rinnovata in quell parti ove la prima sementa era perita.
L’opuscolo fu presentato dal Butori durante una delle adunanze accademiche nel corso del 1817. Il 21 agosto di due anni dopo, Carlo Di Poggio, ciambellano di Maria Luisa di Borbone, sempre in sede accademica, forniva una risposta al Canonico camaiorese, volta a scardinare le convinzioni del Butori e a mostrare l’infondatezza della necessità della presenza della macchia sul litorale avente lo scopo di preservare le coltivazioni dai danni provocati dal vento. Nella sua Dissertazione in cui si sostiene che non è provato esser stato il taglio della Macchia di Viareggio sensibilmente dannoso alla coltivazione del Ducato Lucchese, il ciambellano assumeva una posizione polemica fin dalle prime pagine, poiché, generalizzando, affermava che il ritenere dannoso per le coltivazioni il taglio delle macchie selvatiche de litorali fosse solo una “opinione radicata in Toscana”. Tale convincimento, secondo i lsuo giudizio, non aveva alcun fondamento e coloro che lo sostenevano lo facevano apportando ragioni non vere o, comunque, contestabili. Di Poggio si assumeva quindi l’onere di sostenere la tesi per cui “non costa ancora evidentemente avere il taglio della Macchia di Viareggio cagionato un danno sensibile alla coltivazione, e singolarmente degli ulivi del Ducato Lucchese”, riservandosi però di fare riferimento esclusivamente alle piantagioni di olivi e non ad altri tipi di colture.
Intento del Di Poggio non era quello di dimostrare l’utilità o la dannosità che il taglio della macchia aveva cagionato alle colture, semplicemente si limitava a criticare coloro che avevano ritenuto il taglio della macchia dannoso senza apportare ragioni convincenti.
La prima motivazione sostenuta dal Ciambellano era di tipo retorico: il ritenere il taglio della macchia nocivo, in quanto opinione, non poteva avere alcun valore di verità. Che si trattasse di una semplice convinzione era dimostrato dal fatto che, quando ebbe inizio il dibattito su tale argomento, sia coloro che erano favorevoli al taglio della macchia di Viareggio, sia coloro che al contrario criticavano aspramente tale provvedimento non avevano apportato argomenti significativi tali da convincere l’altra parte. Il governo aveva ordinato il taglio della pineta e, tra la popolazione, sempre avversa a qualunque tipo di innovazione, era iniziata a serpeggiare la convinzione che una simile misura fosse dannosa. Dato che le opinioni erano difficilmente sindacabili, affermava Di Poggio, esse erano perdurate e si erano, anzi, fortificate col passare del tempo, anche a causa della mancanza di testimoni che avrebbero potuto, mediante i loro racconti, contraddire l’infondata credenza riguardo il danno che il taglio aveva provocato sulle piantagioni dato che si trattava di raccolti avvenuti negli anni Quaranta del Settecento. Inoltre, affermava, in nota, il Ciambellano:
Non v’è tanto dannoso errore in agricoltura, quando la persuasione nella qual i contadini vivano d’aver contrarie forze invincibili, siano queste in conseguenza di leggi civili o naturali. Avvertiteli pure che la tale o talaltra pianta non prospera per la loro negligenza, voi perderete il tempo, s’essi credono d’aver venti di mare, e ne’ sali trasportano una malattia irrimediabile, per la cui piante medesima intristisca e non produca il suo frutto. Questa sola ragione basta per mostrar quanta sia la necessità che la repente materia sia definitivamente discussa; perchè se mai avvenga che il taglio della macchia di Viareggio si giudichi per l’agricoltura così indifferente, come non s’è dimostrato contrario, possono i proprietari più spregiudicati profittar di questa conclusione, e per mezzo di una più fina industria rimettere gli oliveti nello stato fruttifero, nel quale vogliono supporsi essere stato prima del taglio stesso, benchè soffrissero da’ venti i medesimi danni che soffrono adesso.
Ad una tale convinzione, a tal punto radicata da diffondersi fino alle Apuane, alla Lunigiana e alla zona di Pontremoli, bisognava rinunciare. Tale rinuncia poneva però un problema di ordine logico, poichè, di fatto, l’unico elemento che avrebbe potuto aiutare a decidere una volta per tutte in relazione al problema del danno causato dall’abbattimento dei pini era rappresentato dalla raccolta di dati efficaci al formarsi di una teoria fondata su una verità oggettiva e provata. Era questa un’operazione difficile da compiere, poichè la costruzione di una qualunque teoria che pretendesse di essere vera avrebbe dovuto comunque fondarsi su dati univoci e non assoggettabili a interpretazione e ciò, secondo l’opinione di Di Poggio, risultava inattuabile per la mancanza di dati certi concernenti raccolti e annate agrarie riguardanti l’epoca in cui la macchia viareggina era ancora presente. Anche nella remota ipotesi in cui fosse stato possibile mettere a confronto i resoconti dei raccolti anteriori al taglio della barriera di alberi, non sarebbe stato comunque possibile imputare una cattiva annata di raccolto ad una causa piuttosto che a un’altra, e neppure stabilire che essa fosse stata tale, appunto, per il taglio della macchia e non invece a causa di qualche altra ragione climatica. In sostanza, affermava il DI Poggio, nessun calcolo sui raccolti avrebbe potuto dimostrare la dannosità del taglio in modo incontrovertibile e inattaccabile.
Anzi (e qui Di Poggio veniva agli argomenti decisivi della sua tesi):
[…] io tengo d’opinione che dall’esperienza traluca, anzi, qualche barlume per sospettare che non abbia il taglio della macchia sensibilmente influito nella nostra coltivazione. Sono oltre i settanta anni, da che esso fu effettuato. Questo taglio nemico delle nostre olive, voi lo supporrete bel bello nemico ancora delle loro piante, che pure sono prosperosissime fra di noi.
Sembrava quindi che le piantagioni di ulivi non avessero subito, negli ultimi decenni, danni permanenti e che, anzi, esse si fossero mantenute in ottima salute e, in alcune annate seguenti al taglio, avessero prodotto raccolti molto buoni. Era questo un fatto e non un’opinione che, in quanto tale sotto gli occhi di tutti, poteva contribuire non poco a sradicare l’opinione corrente.
Successivamente Di Poggio correggeva, però, il tiro:
Dopo tutto questo, mal s’opporrebbe chi mi giudicasse nemico delle macchie marittime, le quali reputo anzi savia cosa procurare sopra quel suolo, che ci nega maggior profitto. Peggio concluderebbe ancora chi supponesse voler io escludere qualunque effetto dei venti marini su’ nostri ulivi […]. Essi depongono non v’ha dubbio, molte volte sulle piante una quantità di sali sensibili al palato; sia poi qualunque l’effetto che ne risulta.
Se era quindi vero (ed ecco l’argomentazione centrale del Di Poggio), che i venti soffiavano sulle coltivazioni, non era altrettanto provato che questi fossero nocivi per le coltivazioni degli olivi, così come non era dimostrabile che gli olivi avrebbero avuto annate maggiormente fruttifere se fossero stati riparati dai venti marini.
A questo punto Di Poggio chiamava in causa la conoscenza razionale e l’analisi attenta del problema. Analisi che, a suo vedere, doveva essere eseguita utilizzando come strumento principale non solo l’osservazione dei raccolti e della situazione degli oliveti, ma la logica:
Una barriera di piante che s’innalza a pochi palmi da terra, sottoposta al rapido torrente di un’atmosfera, la quale muove da una distanza di molte leghe, e di gran lunga oltrepassa la vetta de’ monti più sollevati, non merita, a creder mio, d’essere in proporzione paragonata a uno stretto nastro, steso trasversalmente sul letto d’un fiume, quando gonfio esso per le cadute piogge, e per le sciolte nevi, e minaccia le sottoposte campagne. Or chi mai attender potrebbe un sensibile effetto da così lieve ostacolo a tanto moto?
In sostanza, l’argomentazione del Di Poggio era del tutto ragionevole: una barriera d’alberi non avrebbe mai potuto arrestare il vento di libeccio perchè esso soffiava fortissimo e molto in alto nell’atmosfera. Era pur vero che sarebbe stato possibile che una barriera simile fungesse da protezione per le coltivazioni più vicine al mare, ma nel caso in questione si trattava di terreni che si trovavano a cinquanta o sessanta chilometri di distanza dalla costa, sui colli dell’entroterra. Era quindi improbabile che, in questo caso, una piantagione di pini sul litorale avesse qualche effetto protettivo su di esse.
Di Poggio, a questo punto, citava direttamente Butori. E, dopo aver riportato per l’intero passo dell’opuscolo dove il canonico aveva affrontato direttamente il problema della barriera di pini e degli effetti dei venti, proponeva una propria riflessione:
L’assicurarci (ed io ne convengo) che al presente gli olivi si risentano dei sali ivi depositati dai venti di mare, non è già un negarci che l’infortunio medesimo accadesse cent’anni fa. Si rivolge l’autore a ripetere che la cagione del conceduto danno dal difetto delle macchie marittime; ma se quest’effetto avesse avuto il suo pieno vigore prima ancora che le spiagge del mare fossero disboscate, a chi gioverebbe il ricorrervi? Ora per decidere sopra tale articolo e noi mancano i documenti. Il Signor Butori va dunque a rischio di credere il taglio della macchia causa d’un effetto preesistente alla causa stessa.
Di Poggio accusava apertamente Butori di non aver preso in considerazione l’ipotesi che i danni alle coltivazioni potevano essersi verificati anche prima dell’abbattimento della macchia e di non avere metri certi di giudizio per stabilire se la presenza di una barriera di alberi fosse davvero vantaggiosa oppure no. Se era possibile che la barriera poteva essere utile, nel caso in cui il vento soffiava a poca distanza dal suolo, era altresì vero che questo fenomeno, quando il vento era forte, raramente si verificava, infatti spesso accadeva che i venti, causa della propria forza, si trovavano ad altezze tali che nessuna barriera vegetale avrebbe potuto fermare o ostacolare. Il sale da essi trasportato sarebbe quindi comunque stato condotto lontano, ben oltre la barriera stessa, rendendola di conseguenza superflua.
Butori sentendosi chiamato direttamente in causa, decise di rispondere pubblicamente al Di Poggio durante una lettura tenuta all’Accademia il 20 maggio 1824.
Il canonico, infatti, certo dei propri argomenti sull’utilità della barriera d’alberi, e pur dichiarando di non voler entrare in polemica con Di Poggio, ma di voler solo esporre le ragioni del suo ragionamento, nella sua lettura affermava di aver più colte osservato come, durante una libecciata, il vento portasse con sé l’acqua salata fino alle coltivazioni limitrofe alla spiaggia, danneggiandole. E citava un esempio che riguardava proprio gli olivi:
In ordine agli olivi è rimasto memorabile presso di noi l’anno 1807, nel quale, dopo i furiosi venti marini, che per parecchi giorni dominarono fino verso la metà dell’aprile, sul finire di quel mese, e nel maggio, quelle piante sembrarono come toccate dal fuoco, abbrustolite, e annerite. Correva in quell’anno l’annata piena dell’olio, e fu di fatto scarsissima […]. E’ provato che, se un opportuno ostacolo si frappone sulla piaggia al trasporto verso terra dell’acqua marina, le coltivazioni al di là dell’ostacolo restano salve, ed immuni da ogni danno, e ne abbiamo un esempio parlante nelle coltivazioni da non molti anni intraprese nei terreni già macchiatici vicini al mare.
Butori, per portare maggiore sostegno alla sua tesi, menzionava inoltre i casi di alcuni proprietari terrieri che, per salvare le proprie coltivazioni, avevano fatto costruire una sorta di terrapieno di sabbia tra le terre coltivate dei loro poderi confinanti con la spiaggia e la spiaggia stessa. Il risultato, secondo il Canonico, era che una barriera tra il mare e le coltivazioni restava comunque necessaria e che era meglio che fosse costituita di vegetazione poichè i pini e la macchia mediterranea restavano le piante più adatte a trattenere l’acqua salata senza subirne troppo danno. Sebbene fosse possibile (e qui Butori, nonostante affermava di non voler entrare in polemica con il suo detrattore, rispondeva a una delle questioni del Di Poggio in modo diretto) che i venti soffiassero ad alta quota e riuscissero a trasportare gocce d’acqua salata ad altezza tale che la barriera non fosse in grado di trattenere, questo non appariva un fenomeno dannoso per le coltivazioni vicine al litorale che non avrebbero subito alcun danno perchè l’acqua salata sarebbe stata, comunque, trasportata lontano. Per quanto riguardava l’entroterra, inoltre, non esistevano argomenti né conoscenze tali che potessero far asserire se e come i venti marini fossero dannosi per le coltivazioni che distavano qualche decina di chilometri dalla costa. Inoltre se era vero che il vento era capace di trasportare sostanze a lunghissime distanze, era altrettanto vero che l’acqua marina, rispetto al vento, possedeva una “gravità specifica presso a ottocento volte maggiore di quella dell’aria”, e che
[…] fra una folata di vento, e la successiva accadono alcuni intervalli di aria calma: in quella calma d’acqua non potendosi sostenersi equilibrata in alto coll’aria deve cadere al basso, onde sembra non fondata l’asserzione che l’acqua marina sia portata dai venti a lunghissime distanze, almeno in tal copia da corrompere col suo sale i generi vegetabili di quelle parti.
In conclusione il Butori spostava la questione su un altro piano e restringeva il suo campo d’azione, affermando che la sua idea di fornire una barriera litoranea di alberi e macchia era un provvedimento utile per preservare dai danni del libeccio le coltivazioni che non erano troppo lontane dalla costa e non per quelle dell’entroterra.
I fatti diedero ragione al canonico e il governo borbonico fece in modo che la piantagione dei pini e macchia mediterranea, avvenuta nel 1813 sotto il principato baciocchiano, non solo venisse sradicata ma continuasse ad essere curata, fino a formare una vera e propria pineta boschiva che fungeva da protezione a tutta la costa viareggina.
Da parte sua, Di Poggio non rispose a Butori e le sue successive letture accademiche riguardarono un argomento del tutto diverso: l’analisi di alcuni metodi di piantare il grano. Nonostante la polemica tra i due fosse finita, la questione del depositarsi del sale marino sopra le coltivazioni rimase a lungo un argomento dibattuto.
Quando, nel 1843, furono lette all’Accademia le osservazioni intorno a un parassita che danneggiava gli olivi, l’autore di esse, Antonio Mazzarosa, dopo aver descritto i modi migliori con cui i coltivatori potevano liberarsi del parassita in questione, concludeva il suo discorso in questo modo:
Di fatto, in quest’anno [si tratta del 1842], piccolissimo è stato il guasto fatto da tale insetto […]. Le piogge frequentissime e dirotte che in primavera sono cadute spiegano assai questo benefizio […]. Si vuole ancora attribuire ad un forte libeccio che soffiò nel luglio del precedente 1841, a causa delle particelle saline trasportate dalla vicina piaggia marittima e depositate sugli ulivi, per le quali venisse a perire l’insetto. Ma qualora questo fosse anche un fatto bene avverato, come sembra, sarebbe però del tutto particolare; mentre molti degli uliveti non si trovano esposti all’impeto e quindi alle conseguenze del rammentato vento, né potrebbe citarsi come causa generale di tanto bene.
Le parole di Mazzarosa, quindi, pur arrivando trent’anni dopo la polemica tra Butori e Di Poggio indicavano come la questione fosse ancora aperta. E in effetti, almeno uno dei problemi sollevati dal Di Poggio, era rimasto in sospeso, ovvero quale influenza potesse avere sulle coltivazioni il sale trasportato dal libeccio in occasione di mareggiate; problema che non sarebbe stato mai risolto, tanto che, successivamente, non fu presa alcuna decisione degna di nota sulla barriera di alberi che era stata seminata nuovamente dopo il consiglio del Butori.
Bibliografia:
Bertacchi Antonio, Storia dell’Accademia Lucchese, Lucca, Bertini, 1881
P.Butori, Resultati metereologici di anni quaranta offerti e dedicati all’Accademia lucchese delle scienze, e delle belle lettere ed arti, Lucca, Bertini, 1817
P.Butori, Fatti e ragioni comprovanti l’utilità d’una barriera d’alberi lungo il mare nel litorale di Viareggio, Atti, tomo III
Gino Arrighi, Il Canonico Pietro Antonio Butori da Camaiore 1743-1869 – La Provincia di Lucca Anno IV, n.1, 1964
Antonio Mazzarosa, Le pratiche della campagna lucchese, Lucca, Giusti, 1841
Antonio Mazzarosa, Osservazioni intorno all’insetto che tanto danneggia la foglia e il frutto dell’ulivo nel Ducato di Lucca, Lucca, Bertini, 1845
Carlo Di Poggio, Memoria sul taglio delle macchie di Viareggio, Lucca, Bertini, 1823