Il Moretto e la Stiacciamilioni
ovvero
l’omicidio di Duilio D’Auro
avvenuto a Viareggio nella notte tra il 30 ed il 31 luglio 1905 ad opera di Arcangelo Burchi
da una ricerca storica di Claudio Lonigro e Riccardo Francalancia
testo della rappresentazione eseguita il 27 luglio 2012
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dal capitolo XIII de ‘Il figlio del pastore’ di Lorenzo Viani:
“… andavo sulla duna e passavo delle giornate sane senza cibarmi, guardando il mare. Le barche che uscivano dal porto, tutte invelate, erano la mia consolazione; seguivo il loro corso fino a che non sparivano verso l’Isola della Gorgona. Perduto nell’infinito, sognavo viaggi lontani lontani.
Oltre il braccio di pietrame bigio del molo, c’era tutto lo scenario delle Alpi Apuane e la foce della Magra. Dalle insenature del golfo della Spezia s’udivano come dei tuoni. I pescatori d’arselle andavano lungo la bàttima come anime meditabonde. Le piccole vele dei gozzi da nicchi giallo sbiadite, sul turchino del mare, lo aravano come aratri setati. Gli uomini governavano il timone, che filava argento sulla scia. Il tonfo del ferro gettato sobbolliva di spume lo sterminato plumbeo. I vapori lontani lontani parevano dipinti sull’orizzonte; anche il fumo delle ciminiere pareva dipinto.
Al di là di quella linea infinita, luminosa, profondissima, travagliavano e penavano altre genti. Col chiarirsi delle arie, al vespero, emergevano le isole tutte celesti, la Meloria e la Gorgona, la Capraia, la Pianosa come grandi vascelli disalberati.
Cominciai a star fuori anche la notte. Stavo delle settimane senza farmi vedere a casa. Quando ero vinto dalla stanchezza e dal sonno, mi buttavo sopra una pianta di quercia abbattuta e dormivo con la illusione di essere in una selva. Il pietrato del molo fu spesse volte il mio letto. Buona parte della notte la passavo in un “Casone”, in compagnia di altri trascurati, giuocando per delle lunghissime ore. Tutta la tregenda di quel “Casone” mi aveva impietrato. I pianti continui, i lamenti, le risse, le coltellate, non ci facevano alzare nemmeno il capo dalle carte luridissime. Le ultime ore della notte si passavano in una tettoia lungo il fosso, in compagnia di tutte le trasandate di passaggio. Il padrone della tettoia mercanteggiava anche la moglie. Una sera un nostro amico fece traffico con lui. Il marito andò al caffè notturno, si ubriacò; poi tornò a casa e con la coltella che teneva per chiavaccio all’uscio sgangherato, trapassò l’amico da una parte all’altra, lo prese per i capelli e lo strascicò sul pietrato del fosso …”

La casa di Arcangelo Burchi – disegno di Franco Anichini

Lungocanale ovest, i luoghi del delitto – disegno di Franco Anichini
Alle 2,30 di mattina del 31 luglio 1905, Duilio D’Auro, un giovane marinaio di 28 anni, venne rinvenuto ferito all’addome e al torace sul selciato del Vicolo della Scuderia, che ancora oggi collega la via della Foce col Lungocanale Ovest. Raccolto e trasportato alla Misericordia per essere soccorso e medicato, viene sentito dal Regio Pretore di Viareggio, Avv. Ernesto Arnaldi, al quale il giovane ferito così raccontò l’accaduto:
“Questa notte verso l’una, trovandomi alquanto alticcio pel vino bevuto sono stato tentato di recarmi presso la moglie di Burchi, detto il Moretto, soprannominata Schiacciamiglioni, sapendo che essa è donna che suole far commercio di sé. Entrato mi sono svestito completamene e poi mi sono aggirato per la casa della Schiacciamiglioni, parlando con lei senza congiungermi carnalmente. Nel letto ho notato che vi era altra persona che mi è parso una bambina. Mentre mi trovavo là, è entrato improvvisamente il marito della Schiacciamiglioni. Invano mi sono scusato presso di lui. Esso mi ha subito assalito a colpi di coltello riducendomi nello stato in cui mi trovo; ignudo come sono, son fuggito cadendo

I luoghi del delitto: foto d’epoca
in mezzo alla strada dove sono stato raccolto. Intendo sporgere querela contro il mio feritore il quale da lungo tempo sa, come tutti, che la moglie fa commercio di se stessa. In precedenza non ero mai stato dalla Schiacciamiglioni.”
Con questo crudo resoconto da noi rintracciato in un fascicolo polveroso nell’Archivio di Stato di Lucca, iniziamo a dar corpo e fisionomia al racconto di Lorenzo Viani. Oltre a questo, altri antichi documenti ci condurranno per mano nella realtà sociale del popolo viareggino di quel tempo, o almeno di quella fascia sociale meno fortunata e composta da diseredati, dai disperati, dai trasandati o trascurati per dirla con le parole di Viani. Una realtà sociale lontana dagli stereotipi di una Viareggio allegra e scanzonata, dove la lotta per la sopravvivenza era una costante quotidiana.
Dal primo verbale dei Carabinieri di Viareggio, che condussero le indagini, apprendiamo che alcuni attori romani avevano appena lasciato il Teatro Eden quando, giunti in via della Foce all’altezza del vicolo della Scuderia, scorgono sdraiato in mezzo alla strada un giovane sconosciuto, completamente nudo, che si lamentava per una vasta ferita all’addome dalla quale perdeva molto sangue.
Subito avvertiti dai quattro attori, i carabinieri si recarono subito sul posto e identificavano il ferito per Duilio d’Auro, di 28 anni marinaio di Viareggio abitante in via Garibaldi al n. 36.
Apparve subito chiaro lo stato di salute del poveretto, che con un filo di voce dichiarò di esser stato ferito da un certo Burchi Arcangelo, un 43 enne di Firenze domiciliato a Viareggio in Lungocanale Ovest n.70, proprio a pochi passi da lì. Il ferito venne immediatamente raccolto e portato nei locali della Misericordia dove venne sommariamente medicato, dopo di che i carabinieri si recano a casa di Arcangelo Burchi ma questo, interrogato in merito, rispose che nulla sapeva. Venne comunque dichiarato in arresto e una volta giunto in caserma confessò di aver colpito a coltellate il D’Auro perchè lo aveva trovato in casa sua, completamente nudo, insieme alla propria moglie, Annunziata Firma Bartelloni, una ventisettenne originaria di Carrara, dai carabinieri definita come “nota donna di facili costumi”. Vedendo quel giovane nudo e la moglie in piedi accanto al letto con indosso la sola camicia, il Burchi ritenne che i due si fossero congiunti carnalmente o che comunque erano prossimi a farlo. La moglie, Annunziata, negò di aver mai avuto rapporti col D’Auro, accusando anzi quest’ultimo di essersi introdotto furtivamente in casa e per poi spogliarsi per suo capriccio.
In questo verbale, i carabinieri descrivono la casa del Burchi, consistente in una sola stanza al pian terreno che serve da cucina, camera ed altri usi domestici, con un letto matrimoniale dove dormiva anche una bambina di circa sei anni ed un altro lettuccio occupato da un bambino di circa venti mesi. In prossimità della porta vengono osservate numerose macchie di sangue fresco.

La stampa dell’epoca
Dopo esser stato medicato dal dottor Raimondo Del Prete, che subito lo giudicherà in pericolo di vita, verso le 6 e tre quarti, Duilio D’Auro viene trasportato con una ‘lettiga a piedi’ all’Ospedale Civile di Lucca dove, una volto subito l’intervento chirurgico, viene sentito dall’Avv.Sansoni, Pretore di Lucca, al quale raccontò:
“Questa notte, circa l’ore due, io mi trovavo un po’ avvinazzato, mi sono recato da una donna che si chiama Stiacciamiglioni e che sta sui Fossi, vicino alla stalla delle carrozze. Costei è notoriamente di costumi liberi. Il marito lo sa ed è contento: lui stesso le porta gli uomini; tempo fa scappò di casa ed andò a Vada insieme con delle guardie di finanza. Giunto in casa io mi sono spogliato completamente con l’idea di andare a letto con codesta donna, se non che prima che potessi ciò fare è sopraggiunto il marito. Costui è un uomo sulla quarantina, fiorentino di origine, ma da vario tempo stabilito a Viareggio. Non ne conosco il nome, ma so che è chiamato il Moro. Prima vendeva i pasticcini ora va a pescare. Appena arrivato costui disse: che fai?e si diede a colpirmi con un coltello, mentre io dicevo: Abbi pazienza, ho sbagliato! Conoscevo il Moro da vario tempo ma non ci avevo mai avuto che dire. Era la prima volta che mi recavo da questa donna. Appena colpito tentai fuggire ma caddi nella strada.”
Saranno le ultime parole pronunciate dal giovane Duilio che alle 8,45 del successivo 1 agosto cesserà di vivere.
Il Pretore di Lucca dispose la ‘perizia di cadavere’ affidando l’incarico a due giovani medici: Mario Orlandi, di anni 24 e Giuseppe Tabarracci, di anni 30 , che la eseguirono il successivo giorno 2 agosto. Verrà sepolto nel cimitero lucchese nella tomba numero 1397.
Dal capitolo XIII de ‘Il figlio del pastore’ di Lorenzo Viani:
“Il delitto ebbe delle conseguenze tragiche. L’ucciso era figlio di un marinaro a cui dicevano “il Terracinese”, di membratura colossale e di cuore ferrato.
Dal pietrato del molo, sullo sfondo dei pennoni afforcati in croce e il telaio a spranghe rosse del faro, ogni giorno faceva apparizione “il Terracinese”. Il vecchio gigante, dalla barba sproccosa e i capelli irti, con la bocca armata di denti canini, cieco, con gli occhi incorallati di sangue, lampeggianti come quelli di un lupo, a braccia protese come se volesse prendere qualcuno per la gola, con la voce musicata di ferocia, ruggiva:
– Boiaccia, te magno la corata. Dove se’ annata, te magno la corata. Aridamme Auro! Aridamme Aurooooo!…
Essendo l’uccisore imprigionato, “il Terracinese” cercava la femmina che, come una ghiandaia, era sfalcata nel folto della boscaglia. La folla imbestiata incitava il gigante: – Ammazza, ammazza, ti si dà tutti man forte. Noi la teniamo e tu la scanni.
– Gli succhi il sangue come un foionco!
– Datemi la direzione che io la levo al lezzo della sua carne malnata – e il gigante accecato dava di cozzo nelle colonne.
Qualcuno gli afferrava un braccio, poderoso come la barra del timone e gli dava direzione verso i covili lungo il canale.
– Se è nella tana, s’unge di petrolio come una talpa e gli si dà fuoco.
– Ma dove siamo? – bramiva il gigante cieco.
– Sulla via buona. Vai deliberato, “Terracina”.
– Aridamme Aurooooo…!! Se la scovo nel bosco, le sbacchio il capo nella ceppa di un pino. Farò schizzare le sue cervella impalpe. Dimezzata che l’abbia, la darò in pasto ai cinghiali.
Nei giorni di temporale, quando il mare rompe sul pietrato e gli schizzi spolverano di bianchi il cielo nero e un muglio di tori viene dalla Capraia e dalla Pianosa sommerse, e le vele gialle nelle darsene abbisciano le croci, i rantoli degli arganelli s’affondano nell’acque morte e nere, la voce del “Terracinese” prendeva l’intonazione della tempesta e gli occhi avevano i brividi dei lampi.
Discarnato dai lampi ” il Terracinese” su quello sfacelo sembrava lo spettro di un guerriero valoroso a cui avessero strappato la corona di lauro.
La gente, anche sotto il piovasco andava ad incitare “il Terracinese” e tutti mézzi andavano a imprecare davanti alla tettoia.
La tettoia era sul canale deserto. Quando vi lampava la luna, dagli sdrucimenti che il vento faceva nel cielo nero, e gli alberi dei bastimenti c’erano riflessi, con la porta verde slabbrata, dava ribrezzo. Vicino alla tettoia, simili a tre celle, c’erano i cessi le cui porte erano state portate via; i canali intasati rigurgitavano sul pietrato. Dall’altra parte c’era un fondaco ripieno d’ossa di bestie, la cui putredine richiamava tutti i cani e i gatti malati che durante il giorno stavano accovacciati nelle fognature del fosso di scolo. L’alba in cui fu trovato l’assassinato marmato sulle pietre, cani e gatti lo annusavano.
Di giorno largo, dalla finestra della tettoia disabitata, si scorgeva una colonna del letto sulla cui nottola nera c’era una fiamma bianca gelata di scolati di candela. Sulle coltri, accagliate di sangue, c’era rimasto sbuzzato un guanciale ripieno di penne di gallina.
Quando la tettoia dava ricetto, appena che uno aveva bussato, l’uscio si apriva e il padrone si metteva sull’attenti e presentava le armi con la coltella che faceva da chiavaccio.
La sera che Auro andò alla tettoia nessuna trasandata vi era capitata.
– Se te ne giovi puoi bere al mio bicchiere.
– Sì.
La donna, due stinchi entro due piedi divaricati, il ventre stralevato sulla cresta del bacino, le poppe ciondoloni sul ventre, il petto scarnito di una pollastra, il viso rosso slabbrato, leccato dalle lingue nere dei capelli unti, due occhi che uno guardava fisso e l’altro di traverso, con i pugni affondati nei lombi, disse al marito: – Passa via.
– E voialtri voltatevi di là –. Le sue bimbe dormivano in un canile nel canto del fuoco.
Dopo l’accaduto, le bimbe le portaron via le guardie.
Alla madre, braccata dal “Terracinese”, le convenne andar su per le montagne.”
Ogni omicidio pretende il suo colpevole. L’assassino venne trovato, arrestato e carcerato ‘in Torre’ come si diceva nella Viareggio di quegli anni. Ma la voce popolare pretese ed ottenne un altro colpevole.

La massese, Lorenzo Viani 1912
L’Annunziata non godeva in pubblico di buona fama. Di lei ci è arrivata la sua descrizione, contenuta nel verbale dei carabinieri: di anni 26, alta 1.64, di corporatura regolare, occhi e capelli neri, naso greco, insomma probabilmente una donna piacente, a parte una cicatrice nel collo e una in fronte, era comunemente ritenuta – a torto o a ragione non sta a noi dirlo – … una donna “di cattiva moralità.”
Tanto fu la diceria popolare che il successivo 3 agosto Annunziata venne arrestata dai Carabinieri come complice del marito per le gravi lesioni procurate al giovane D’Auro Duilio.
Nel verbale d’arresto, infatti, si legge che “… con insistenza non comune, l’opinione pubblica di questo paese accusa di complicità la moglie del Burchi, una donna di cattiva moralità che impunemente e pubblicamente si abbandona a linguaggio sconveniente, vantando che di se stessa esercita libero commercio quantunque maritata e madre di due creature”. E, come se non bastasse, si calca ancor più adducendo che ospitava i clienti nel letto in presenza dei figli, e tutto ciò col marito consapevole che, anzi, gli procurava avventori sia paesani che forestieri. Del denaro poi se ne impossessava il marito, ubriacandosi di continuo, senza pensare lontanamente a lavorare.
Questo è il quadro generale descritto dai carabinieri sulla scorta delle voci pubbliche.
Poi, entrantdo nel merito dei fatti, si legge che il Burchi, quella sera, fu visto col D’Auro girare per bettole e osterie consumando bevande, pagate però dal D’Auro. E fu così che più tardi il Burchi condusse il compagno di scorribande in casa propria affinché si servisse della propria moglie, a saldo del debito.
Ma quello che emerge successivamente dal verbale è veramente singolare.
Lasciato il D’Auro con l’ Annunziata, il Burchi si sarebbe allontanato da casa in compagnia di una certa Carolina Mattei, una prostituta anch’essa di Carrara, accompagnandola a casa di un certo Pietro Filié, un ventenne viareggino che abitava in via di Mezzo al numero 105.
Il Burchi poi se ne sarebbe tornato a casa e avrebbe dunque trovato il D’Auro nudo, con la Annunziata scatenando la reazione che sappiamo.
Per rafforzare la tesi della colpevolezza, si legge che l’Annunziata, a rapporto ultimato, pretendeva il pagamento da parte del D’Auro, non sapendo che già il giovane avesse speso i soldi della prestazione con il marito, per cui i coniugi si sarebbero scagliati contro il giovane e, una volta ferito e credendolo ormai in procinto di morire, lo avrebbero portato di peso in via della Scuderia.
Una serie di particolari, e principalmente la testimonianza della vittima raccolta sia dai carabinieri in via della Scuderia, poi dal pretore di Viareggio alla Misericordia e poi dal Pretore di Lucca all’ospedale dopo l’operazione, tendono ad escludere questa ricostruzione dei fatti.
Ovviamente la Bartelloni, interrogata, negò tutto, ma ciò non servì ad evitarle l’arresto. Giustizia venne fatta.E a furor di popolo, tant’è che nel verbale si legge ancora che “… nel momento dell’arresto, dalla casa dell’arrestata alla caserma, si radunarono circa 500 persone che si abbandonarono a segni di approvazione per l’arresto operato. Tale dimostrazione si rinnovò pure alle ore 21 di ieri, davanti alla caserma, senza verificarsi inconvenienti”.
Detenuta in Torre per complicità in omicidio volontario, Bartelloni Firma Annunziata di professione ‘impagliatrice di fiaschi’, alle ore 8,15 del 4 agosto 1905 così rispose al Pretore di Viareggio:
“Mi protesto innocente della grave imputazione che mi si addebita. Quella sera me ne stavo in casa piangendo perché mio marito mi aveva picchiato pel fatto che la mia figliuola Ida di anni 7 aveva perduto 4 soldi. Mentre mio marito si trovava seduto fuori della porta ed io sempre piangendo mi ero allontanata di pochi passi sulla strada per paura di essere di nuovo picchiata, perché mio marito era diventato proprio una bestia, fui avvisata dalla mia bimba che stava arrivando la Carolina, una prostituta che noi conoscevamo per averla tenuta tre anni orfana in casa nostra. Veduto infatti che stava arrivando la Carolina, io mi rinfrancai sapendo che mio marito non mi avrebbe picchiata in sua presenza e così rientrai in casa ove mi misi di nuovo a piangere. La Carolina prese a confortarmi dicendomi che si sarebbe allontanata di casa con mio marito, cosa che infatti fece. Potevano essere circa le 21,30 . Alle 22,30 tornarono: mio marito, la Carolina e la mia bimba che era andata con loro. Una volta tornati, manifestai alla Carolina che avevo il desiderio di andare al teatro Nereo per vedere Stenterello, e la Carolina mi rispose che mi ci avrebbe condotta. Allora posi a letto i miei due figli e uscii, io, la Carolina e mio marito. Però, siccome non volevo andare assieme a mio marito perché mi aveva picchiato, io per la strada me ne andavo in disparte, da sola, ed anzi, incontrato Chiocchino, un vetturino che abita vicino a casa mia, mi feci accompagnare da lui con la sua carrozza fino al Caffè del Casino. Poi, poco più in là, mi rincontrai con la Carolina e mio marito. Si andò al Nereo, ed anche là me ne stetti in disparte. Terminato lo spettacolo si uscì tutti insieme ed in compagnia di Romolo Cestàri, in marinaio che abita anche lui in Lungocanale ovest, si andò fino a casa ed il Cestàri ci lasciò pochi passi prima. Io rincasai e mi posi subito a letto vicino ai miei figli. Mio marito invece riuscì per accompagnare la Carolina che andava in cerca del suo amante Pietro Filiè. Prima che riuscisse, dissi a mio marito di chiudere la porta a chiave e credo che effettivamente l’avesse chiusa perché sentii girar la chiave nella serratura. Mi addormentai. Ad un tratto fui svegliate dalle grida di mio marito che mi chiamava “Annunziata! Annunziata!”. Domandai cosa fosse e lui mi rispose di accendere la candela. Accesi un fiammifero, ma vidi che non avevo la candela sul canterale, candela che mi fu portata da mio marito che era fermo sulla porta. Solo quando una volta accesa la candela e appoggiata sul canterale, fu allora che mi accorsi che con la schiena poggiata al muro, nello spazio tra la porta e l’armadio, c’era un ragazzo a me del tutto sconosciuto, e come lui anche la sua famiglia. Mi accorsi anche che mio marito teneva in mano un coltello, aperto. Quel ragazzo quando vide la luce si rivolse subito a mio marito dicendogli: “Mi conosci Moro? Son Duilio figlio del Terracinese, sono un bravo ragazzo. Scusami perché ho preso sbaglio”. Io domandai come mai un giovane si trovasse in nostra casa nudo, ed ero convinta che lo stesso avesse avuto un appuntamento con la Carolina – dal momento che lei mi aveva chiesto di lasciarle un lettino spiccio nel caso avesse trovato qualche avventore – e che rifiutandosi di pagarla, mio marito gli avesse ritenuto i vestiti. D’istinto dissi a mio marito a restituirgli i panni, ma lui mi rispose che quella era una mia pantomima e si scaraventò su quel ragazzo prendendolo a coltellate. Quel giovane lo supplicava di non farlo, ma mio marito, dopo averlo più volte colpito lo buttò fuori di casa dicendogli che i panni fosse venuto a prenderli l’indomani. Quel poveraccio uscì tenendosi la pancia con le mani, dicendo: “Vedi Moro mi hai ammazzato”. Mio marito Arcangelo,Il Moro, richiuse la porta a catenaccio e poi si rivolse verso di me col coltello aperto dicendomi che voleva colpirmi. I mi bambori s’ erano svegliati, mi abbracciarono e si misero a piangere; mio marito allora chiuse il coltello dicendo che mi avrebbe lasciata salva purchè avessi detto che quel ragazzo l’avessi ferito io. Per paura risposi di si. Dopo dieci minuti circa fu picchiato all’uscio; recatami ad aprire vidi entrare la Carolina che mi disse che nel vialetto vicino casa mia c’era un cadavere. Mio marito mi dette un’occhiata minacciosa e allora io risposi alla Carolina che quell’uomo l’avevo colpito io. A quella parole la Carolina scappò spaventata. Qualche minuto dopo giunse il Maresciallo dei Carabinieri e anche a lui dissi che autrice del fatto ero io. Il maresciallo si approntava ad arrestarmi e fu allora che gli feci cenno con la mano per fargli capire che il vero autore era mio marito, che allora venne arrestato. Questa è la verità vera.
Non è vero che quel ragazzo ferito da mio marito è venuto a letto con me, o con me si trovasse a discorrere. Io non mi accorsi affatto quando entrò. Non so come abbia fatto ad entrare, ammesso che mio marito avesse, come credo, chiuso la porta a chiave. E faccio notare che una volta chiusa dal di fuori, la porta dall’interno non si può aprire.
E’ falso che io sia dedita alla prostituzione. Soltanto che, a mio marito, non ho mai voluto bene; perché dopo 4 giorni di matrimonio, per una piccolezza, mi picchiò malamente al punto di farmi stare a letto. Ho avuto due amanti. Come si dice, è falso che io abbia avuto la benché minima partecipazione nel delitto.
Adduco a mio discarico il vetturino Chiocchino ed il Cestari nonché Isolina Guidi presso la quale ebbi a rifugiarmi quando mio marito mi picchiò per i 20 centesimi smarriti. Costei potrà deporre anche sulla mia condotta.
Il Tribunale di Lucca ordinò il permanere dello stato d’arresto per il Burchi, già detenuto dalle prime ore del 31 luglio nelle carceri mandamentali di Viareggio, ovverosia la Torre e la scarcerazione provvisoria della Bartelloni, probabilmente riscontrando la manchevolezza dell’accusa nei suoi confronti.
A questo punto si rende utile e necessario avere una visione d’insieme dei luoghi dove accadde il fatto. Uno scrupoloso ‘verbale di visita di località’, redatto dall’Avv.Arnaldi Pretore di Viareggio, ci consente, a distanza di oltre cento anni, di poter ricostruire con precisione la geografia del luogo. Vale la pena sottolineare che solo tre anni prima era entrata ufficialmente in vigore la scuola italiana di Polizia Scientifica che avvalendosi appunto della metodologia del ‘ritratto parlato’ o ‘ portrait parlèe introdotto da Alfonse Bertillon, sopperiva, allora come oggi, a carenze tecniche organizzative consentendo così di descrivere in modo efficace sia una persona ma anche un ambiente o, come nel nostro caso, la località dove si trovava l’abitazione del Burchi Arcangelo, in via Lungo Canale Ovest n.70.
Per prima cosa osserva e descrive con accuratezza la porta d’ingresso ed i suoi meccanismi di chiusura per poi, attraverso prove empiriche eseguite personalmente, giungere alla conclusione che “…spingendo la porta con una certa violenza, e per più volte dal di fuori, il catenaccetto sfugge dall’occhiello medesimo e la imposta destra della porta s’apre, producendo però notevole rumore.”
Poi prosegue con la descrizione dell’abitazione del Moro e della Schiacciamilioni:
“L’interno dell’abitazione de’ coniugi Burchi consta di un solo vano terreno della larghezza di metri 4,45 e della lunghezza di metri 4,65. La stanza riceve luce da una finestra situata in alto, al di sopra della porta di ingresso. Sulla parete, a sinistra di chi entra, si nota un focolare e delle panche di legno. Nella parete di contro alla porta c’è un piccolo tavolo con 4 piedi e una credenza di legno verniciata color rossiccio. Di fronte alla porta, ed a breve distanza da essa, un tavolo quadrato a 4 piedi che poggia contro una stuoia tesa verticalmente, e che funge da tramezzo della stanza. Di là da questa stuoia, che è a

L’abitazione dei coniugi Burchi – disegni di Franco Anichini
destra di chi entra, si trovano, poggiati alla parete di contro alla stuoia, un comò con una toeletta con specchiera, un lume a petrolio, e ,
conficcato sul collo di una bottiglia, una candela consumata a metà. A fianco del comò, un letto di legno a una piazza e mezza munito di pagliericcio e materasso. A breve distanza da questo letto e poggiato col lato destro alla parete di contro alla porta di ingresso, si nota altro lettuccio ad una piazza, munito pure di pagliericcio e materasso.
Secondo quanto ci riferisce il Maresciallo dei Reali Carabinieri, su questo lettino sarebbero stati da lui rinvenuti i vestiti del ferito D’Auro Duilio, nonché il coltello adoperato dal Burchi Arcangelo per ferire.
Chiazze di sangue, pure ci riferisce il Maresciallo, esistevano sul pavimento (che è fatto di mattoni di terra cotta) e precisamente di fronte alla soglia della porta, a distanza di circa 90 centimetri da questa. Di tali chiazze non si riscontrano attualmente tracce di sorta.
Si è poi rilevato che il ferito D’Auro fu rinvenuto nel prossimo vicolo situato a destra di chi esce dalla casa Burchi e che mette in comunicazione il Lungo canale ovest colla via della Foce.
Detto vicolo chiamato vicolo della Scuderia è lungo metri 19,60. Il ferito giaceva in prossimità di una colonnina di pietra infissa al suolo a distanza di metri 5 circa dall’angolo di via della Foce e di metri 14,60 dall’angolo del Lungo canale ovest.
La distanza totale dal punto ove sarebbe rinvenuto il ferito alla porta della casa di abitazione dei coniugi Burchi è di metri 37 circa.”

La ricostruzione del delitto – disegno di Franco Anichini
Nel corso delle successive indagini, che proseguirono per meglio chiarire i fatti, Giuseppe D’Auro, padre di Duilio, riferì al Giudice: di aver parlato col figlio mentre si trovava alla Misericordia per essere medicato, e lì gli riferì che quella sera aveva incontrato il Burchi il quale si era fatto dare due lire e poi lo aveva mandato dalla propria moglie. Ci era andato, e mentre era a letto con lei entrò il Burchi che lo colpì a coltellate. Giuseppe D’Auro aggiunse di essere convinto che, per sopraffare il figlio, il Burchi fosse stato aiutato anche dalla moglie, altrimenti Duilio, che era molto robusto, si sarebbe ben difeso.
Anche Dradi Ricciotti, un impiegato della Misericordia, riferì al Giudice di aver parlato con Duilio prima che venisse medicato; gli disse che verso mezzanotte era uscito dalla bottega di Radicchio e che poi aveva incontrato il Burchi con la moglie. Si era fatto pagare da bere e poi si fece dare anche una lira. Poi, mentre si trovava a letto con la moglie del Burchi, Duilio si era visto arrivare lui in persona, che lo prese a coltellate.
Ma … c’è un ma.
Sul primo treno che la mattina del 31 luglio partiva da Viareggio in direzione nord, viaggiavano Pasquale Ciuffardi ed Enrico Padolecchia, due marinai di Marina di Carrara, ed una giovane donna che durante il viaggio conversò con loro del delitto avvenuto. Il Ciuffardi dichiarò di non ricordarsi molto di quanto la donna disse, anche perché era abriaco; il Padolecchia, invece, dichiarò che la ragazza disse di aver dato appuntamento quella sera, intorno alle 9, a quel giovane che poi venne ucciso, e dopo essere stata con lui ‘in intimo colloquio’ lo lasciò per andare altrove.
Questa giovane donna che al mattino del 31 luglio del 1905 viaggiava sul treno da Viareggio verso Carrara, era Carolina Mattei. Carolina era stata già sentita dal giudice il 19 agosto 1905 ma in quella fase omise di raccontare questo episodio oppure, semplicemente, non gli venne chiesto. Nel marzo 1906, dopo essere stata a lungo cercata, sentita in merito a queste dichiarazioni rispose così:
“… Il Padolecchia …..Non so se sia quell’ individuo che viaggiò nel mio stesso scompartimento da Viareggio a Massa e che era ubriaco. Quell’individuo ubriaco bestemmiava e diceva: “Hanno ammazzato un uomo e danno la colpa ad una carrarina!”Iinfatti la moglie del Burchi è di Carrara. Io al Padolecchia domandai solo se quell’uomo fosse morto, e poi non più parlai con lui.
Quanto afferma la Bartelloni nelle parti dei suoi interrogatori contestatemi non è conforme a verità. È strano infatti che la Bartelloni abbia potuto trovarsi in casa con un uomo senza avergli permesso l’accesso, tanto più quando quell’uomo, come la Signoria Vostra mi dice, … fu trovato nudo!! . Aggiungo poi che non ho mai detto al capitano Papini di Marina di Carrara che io avevo dato la chiave dell’abitazione della Bartelloni al D’Auro per trovarlo nella casa di quest’ultima e giacere carnalmente con lui. E nego pure di aver detto alla Bartelloni di farmi trovare un letto libero nel caso che avessi trovato qualche avventore. A Viareggio io andai esclusivamente per trovare il mio amante Filiè e non per andare in cerca di altri uomini.”
Dopo che venne arrestato dai Carabinieri, Arcangelo Burchi venne associato nella Torre e di lì, successivamente, al Carcere S.Giorgio di Lucca in attesa di essere giudicato dalla Corte d’Assise.
Sul finire del 1906, chiese ed ottenne dal direttore del carcere 10 fogli di carta. All’interno della sua cella, su questi fogli, scrisse un memoriale dal titolo “Esatto Resoconto sull’accaduto della notte 30 – 31 luglio 1905 In Viareggio”, con l’aggiunta di 22 sonetti.

Il Burchi in carcere – disegno di Franco anichini
Non vi nascondiamo lo stupore che avemmo nel leggere queste pagine: non ci aspettavamo che una persona di quello stato sociale, senza particolari studi alle spalle, un trasandato che viveva di espedienti sconfinando spesso nell’illegalità, potesse esprimersi in questo modo.
“La domenica del 30 Luglio 1905 mi alzai per recarmi insieme a mia moglie per industriarci alla piazza del mercato, vendendo, e comprando frutta ed erbaggi. Alle 12 terminata la vendita e riposto il genere avanzato, ci recammo a casa per pranzare secondo i nostri mezzi. Poi, non avendo nessuna volontà d’uscire, mi trattenni tutta la giornata in seno alla mia famiglia, leggendo e fumando.
Invitata a giocare a tombola da un’onesta famiglia, mia moglie mi chiese il permesso, ed io non mi opposi che vi andasse, promettendo che non mi sarei allontanato da casa ed avrei atteso a bimbi.
Venuta l’ora, chiamai mia moglie che venisse in casa per custodire i figli, e subito giunta diede di mano ad imbadir la cena. Mancando l’olio per condire la pietanza (essendo fagioli in erba) mandò mia figlia Ida alla Drogheria Luisi a prendere detto genere.
Veduto la tardanza della bimba, e credendo che si fosse fermata per strada a giocare com’è solito dell’infanzia, mia moglie mi pregò che gli fossi andato incontro.
Giunsi nella Drogheria, e veduto mia figlia che aspettava di essere servita, pregai il proprietario Renato Luisi volermi servire. Ottenuto il genere richiesto mi rivolsi alla bimba perché gli desse i denari; questa rispose di averli posati sul banco, e che il ministro li aveva versati nell’incasso assieme ad altra moneta che si trovava lì sopra.
Il proprietario fece segni di sfiducia a quello che la bambina diceva. Io lo rassicurai che sua madre gli aveva dato i denari prima di uscire di casa, ma qualora segnasse al conto corrente, oppure glieli avrei mandati.
Raccontato ciò alla moglie e rimproverata perché non andasse da sé a prendere l’occorrente per la famiglia, si scagliò sulla figlia percuotendola ingiustamente.
Io mi mossi per reprimere, e mia moglie per temenza che volessi percuoterla, perché sapeva che non volevo che i miei figli fossero percossi, si allontanò crucciata ponendosi a sedere sopra una bitta.
Mi posi a costudire i figli, ed appena ebbero cenato, il maschio Cecchino lo posi a letto, mentre la bimba restò con me sulla porta di casa, trastullandosi al fresco.
Col treno delle 9 di sera, proveniente da Carrara, scese a Viareggio Mattei Carola, fidanzata da circa 3 anni ad un giovane Viareggino, Pietro Filiè; e trovandosi di passaggio dalla mia abitazione, si fermò per salutarmi; anche mia moglie si avvicinò a salutare la Carola, e dopo lo scambio di poche parole entrò in casa, si spogliò e si mise in letto senza neppure dare la buona sera.
Vedendo che mia moglie non usciva più di casa e credendo che fossimo crucciati, la Carola volle invitarci a passeggio e a prendere un gelato, ma mia moglie rispose che era stanca e che rimaneva a letto..
Mia figlia principiò a pregarmi di portarla a prendere il gelato, e così mia moglie la vestì, la pettinò, e pregò me di accompagnarla. Contro la mia volontà uscii per contentare la figlia.
Ci recammo alla sorbetteria Napoletana, in piaggia presso il molo, ed ordinata una consumazione, ci si fermò pochi minuti per sentire una romanza, essendo quel locale Caffè Chantant; ma prendendo sonno alla bimba, ci dirigemmo verso casa.
Per strada, la Carola propose di fare alzare mia moglie dal letto e di andare assieme al Nereo, per assistere al dramma che si rappresentava – I Tre Moschettieri – , ed infatti giunti che fummo alla mia abitazione, la Mattei pregò e sollecitò così tanto che mia moglie, dopo aver posto la figlia a letto, si alzò si vestì alla meglio e ci recammo al detto locale.
D’amore, e d’accordo ci si trattenne fino che non fu del tutto terminato lo spettacolo. Nessuno ebbe mai occasione di uscire, senonchè io per bere una bibita ghiacciata fuori del locale perché dentro le consumazioni sono molto costose, rientrando subito.
Chi avrebbe creduto mai, che dopo quel divertimento serale dovessi trovarmi senza nulla immaginar e in una galera? Eppure non avevo nessune inimicizie, nessun rancore, né sospetti, né motivi, di essere costretto di dover ferire, e rendermi capace di commettere un omicidio. Purtroppo questo avvenne!
Terminata la farsa uscimmo, ed incontrammo Romolo Cestari, padrone di paranza e mio amico da molti anni, abitante a pochi passi dalla mia abitazione. Assieme a lui ci accompagnammo, parlando di pesca, e cose che riguardavano l’arte del mare, essendo anch’io pescatore; giunti a casa ci scambiammo la buonanotte, e mia moglie, aperto l’uscio di casa, entrò e senza por tempo in mezzo, si spogliò, e si pose a letto.
La Carola che si avvide che mia moglie si era spogliata, la pregò condiscendere ch’io l’accompagnassi a casa di Antonietta Filiè, abitante via Di Mezzo presso l’Officina Elettrica, e fu lì che mia moglie mi chiese di andare a comprare una candela essendo l’abitazione completamente al buio.
Consegnatami la chiave da mia moglie, avendo lei nell’entrare aperto la casa, chiusi/ son certo/ la porta, e andai con la Carola per accompagnarla. Ci fermammo alla Drogheria Luisi per prendere la candela. Entrati nel negozio la Carola domandò al padrone se si fosse visto Pietrino, essendo questi assiduo frequentatore di detto locale. Avuto risposta che da un momento all’altro sarebbe giunto come di solito, ordinò una bibita, e ci sedemmo fuori al negozio aspettando questo arrivo.
Dalla mezzanotte e mezza fino all’una e tre quarti, ci si trattenne scherzando familiarmente col padrone, col ministro e con la serva, non essendoci altre persone, senonchè uno di Viareggio conoscente di vista ch’io non conosco il nome, che sedutosi al nostro tavolino si trattenne in conversazione.
All’una e tre quarti, che suonava alla torre, pregai la Mattei di alzarsi, se avea piacere di essere accompagnata, e chiesto il conto rimasi io pagatore e debitore di 20 centesimi, non avendone in tasca, e non volendo che una donna mi pagasse da bere.
Essendo ora sì tarda, ci si diresse a passi direi di corsa per giungere a casa Filiè, ove giunti e battuto alla porta venne ad aprire Antonietta, quindi sceso Pietrino ci scambiammo poche parole, e con la buona notte li lasciai dirigendomi verso casa mia.
Nemmeno un anima viva trovai lungo il viaggio, solo, prima di giungere pochi passi dalla mia abitazione, e sotto il fanale elettrico dall’angolo del negozio di stracci di Giusti Giuseppe, incontrai quattro giovani che avevano una chitarra, ma stavano muti, e vedutomi parevano avessero sospetto di me. Erano di Viareggio, ma a causa che non ho la vista buona non potrei riconoscerli.
Gliene parlai al Pretore nel mio interrogatorio, e pare non abbia trovato chi fossero, ma oggi so che erano quelli che uniti al D’Auro, erano in ora tarda nel caffè di Ercole Pellegrinetti e che, oltre il bere, avevano chiesto il permesso di fare una cantata, che il cameriere negò essendo proibito.
Recatomi alla mia abitazione e presa la chiave per aprire, trovai con mia sorpresa la porta aperta. La spalancai e chiamai mia moglie. Nessuno rispose. Credendo che fosse venuta a cercarmi come aveva fatto altre volte quando tardavo, entrai, e mi diressi presso la tavola per trovare i fiammiferi ed accendere il lume. Sentendo muovere, chiamai: Nunziata!, ma nel tempo che ero per accendere la candela, mi sentii prendere per il petto e gettarmi violentemente contro il camino.
Fu un colpo solo.
Preso dalla paura, non sapendo cosa fosse successo in casa, o quello che si volesse commettere, estrassi il coltello che avevo in tasca, tirando a dritta e sinistra, essendo al buio, e non conoscendo chi fosse l’aggressore.
L’individuo ferito fuggì precipitoso di casa essendo la porta aperta, senza ch’io potessi conoscerlo, benchè mi avesse offeso di farabutto, ed altre parole inintellegibili.
Mentre che usciva, dal riverbero dei lumi della darsena che riflettevano nella mia porta, mi accorsi che il fuggitivo era nudo. Acceso il lume corsi sopra mia moglie, e sarebbe certo rimasta uccisa, se non si fosse riparata col proprio figlio di 2 anni che teneva fra le braccia, e le grida che cacciava sua figlia: Non ammazzare la mamma!!; e questa…. giurare sulla sua innocenza , di non essersi accorta che quella persona fosse entrata in casa durante la mia assenza, di non avere aperto a nessuno, di non aver relazioni con niuno.
Gettai il coltello, e raccolsi mia figlia fra le braccia per calmarla dallo spavento, inveendo sempre contro mia moglie, insistendo e volendo sapere da lei chi fosse il fuggitivo minacciandola d’ogni vituperio.
Mentre che stavo seduto con la bimba in braccio, ella cacciò un grido vedendo che avevo macchiato di sangue la camicia presso il colletto. Creduto di esser rimasto ferito dall’avversario, posi la bimba in letto, e spogliatomi guardai la provenienza di quel sangue, e non riscontrai ferite su di me, se non leggere escoriazioni al petto. Quindi mi posi in cerca d’altra camicia togliendomi quella sporca.
Non avevo ancora ultimato di vestirmi, quando giunse il maresciallo dei carabinieri, ed interpellato mia moglie, si accorse bene che ero io il feritore, perché mi trovavo in uno stato anormale da far paura ad un mostro, e non occorreva investigare di più per conoscere il reo.
Chiamato il rinforzo fui tradotto alla vicina caserma, ed alle ore 5 antimeridiane del 31 fui tradotto nella Torre.
Durante il tempo che doveva giungere il rinforzo a prendermi, mia moglie si accorse che presso il camino vi era una pozza di sangue, e tolta un pugno di cenere per coprirlo, il maresciallo glielo proibì, dicendo che tutto fosse rimasto come si trovava attualmente.
Non è niente vero ch’io tirassi al D’Auro nel letto mentre giaceva con mia moglie, né tampoco in camera, come dall’accusa; qualora questo fosse stato, non avrei avuto nessuno interesse il negarlo, anzi, avrebbe maggiormente comprovato il flagrante adulterio, e forse non avrebbe avuto il tempo né di fuggire né di parlare. E se avessi avuto rancori, odi, o sospetti, od altri interessi, come si vuole e secondo il detto delle pessime informazioni dell’Autorità che vuole dimostrarmi come un bruto, dietro a delle false denunzie di persone abiette e depravate …. S’interroghi la Carola Mattei, che dopo averla lasciata in via di Mezzo uscì accompagnata dal suo fidanzato ed incontrato il ferito venne alla mia volta ad annunziarmi la disgrazia, non sapendo, e non pensando, che questi era da me stato sorpreso in quello stato quindi ferito!
Io quella sera mi trovavo nelle mie piene facoltà mentali; e perciò ricordo che mia moglie rispose alla Mattei queste precise parole: Carolina stà zitta, l’ha trovato in casa il Moro e gli ha tirato. Io dissi alla Carola facesse il favore di avvisare persone per soccorrerlo, benché non sapessi chi fosse. Mia moglie, saputa la nuova, mi suggerì di fuggire.
Se avessi creduto di avere operato senza il mio diritto, oppure se avessi avuto sulla coscienza ciò che mi si addebita, avrei avuto anche il tempo sufficiente per allontanarmi. Invece non mi mossi di casa neppure d’un passo. E rinvenuto i panni di quello sciagurato, dissi a mia moglie di non farne nessuna consegna, se prima non avessi saputo chi fosse.
Dalla finestra del carcere dove io orecchiavo la maldicenza del basso fondo sociale viareggino, udii calunnie, novelle, fandonie, da far ridere una mummia egiziana.
Povero secolo del progresso, con tanto grettume!
Per darvi una idea di quanto si diceva, in un capannello formato da Giuseppe D’Auro, la Belli Armida, la Palagi Clotilde, la pentolaia, Pelo l’imbriacona, che venne più tardi a trovarmi in S.Giorgio, il moro della Pescina , eccetera…. eccomi a darvi l’esatto ragguaglio.
La Palagi gridava di aver veduto mia zia Elisabetta Bertini, lavare un lenzuolo intriso di sangue, e perciò diceva che l’avevo sorpreso nel letto con mia moglie.
Il D’Auro gridava: “Brutto vigliacco! Dopo aver mangiato e bevuto con mio figlio nella fiaschetteria di Radicchio, mio figlio gli ha dato lire cinque, perché lo lasciasse andare a dormire con sua moglie!. Questo non lo potrà negare ciò i testimoni!”Oggi non sono più 5 lire, bensì solo due, e non trova la fiaschetteria, né il luogo dove con suo figlio ci siamo incontrati.
La Belli, che gli avevo bastonato il marito e mia moglie gli aveva più volte scosso la polvere ….. lascio considerare quello che sortiva da quella lingua sacrilega; basta, si sa chi è la Belli, non tocca a me entrare nei meriti o demeriti di questa pettegola.
Altri dicevano che al mio arresto mi era stato trovato l’orologio a catena d’argento, più lire 17 nelle scarpe, roba della vittima, perciò ero un assassino infame.
Chi diceva che ero stato tutto il giorno gozzovigliando ed ubriacandomi con Duilio, e poi con raggiri lo avevo tradotto in casa, ucciso, spogliato, e poi assieme a mia moglie trascinato fuori, e in più mia moglie mi suggeriva di gettarlo nel fosso.
Dicevano che il D’Auro era un pezzo che frequentava mia moglie, fino dall’aprile, mentre io mi trovavo a Piombino a lavorare in Ferriera.
Che lui manteneva mia moglie a commerciare in piazza; ma non pensavano che Duilio non ne guadagnava tanti per i suoi vizi, che era un notturno libertino, ed un ubriacone per eccellenza, coinvolto sempre in comitive di gioventù spensierata, stando a cantare l’intera notte per le vie e pei caffè in completa allegria.
Iddio lo riposi, e possa l’anima sua attrarsi alla destra del Creatore. Io non ebbi né la volontà di uccidere il D’Auro, ne tampoco nessuno, ma sorpreso come lo fui, fosse stato chiunque dei viventi sulla terra, gli sarebbe toccata la stessa sorte.
Sotto il proprio tetto nella famiglia, ognuno è Dio, padre, Re, difensore, sia della moglie, dei figli, e dei segreti delle pareti domestiche che nessuno osi violare.
Se avrò torto di fronte alla legge umana, Dio sa che sulla mia coscienza nulla mi aggrava, e se commisi quell’uccisione, non mi credo responsabile del reato commesso.
Vedete, la lingua quanto è capace di dire oltre la verità: specchiatevi dalla Palagi. Sapete cosa era ciò che la zia lavava al pubblico lavatoio? era una camicia, quella appunto che mi tolsi di dosso, e non poteva vedersi tanto sangue perché erano due piccole macchie presso il colletto uscito da una ferita riportata nella spalla sinistra.
Credete che io non sappia niente?
Seppi anche nelle discussioni continue che si facevano notte tempo ai caffè di piazza, che la morte del D’Auro fu cagionata per il ritardo a portarlo in Lucca, che il Pretore si recò dopo le 6 ad interrogare il ferito. Ed io vidi passare la lettiga di sotto la Torre: suonava le 7 meno un quarto.
Speriamo sia presto il giorno di potermi giustificare davanti ai Signori Giurati, e sapere in pieno giudizio la causa che mi ha spinto a commettere il delitto, secondo come vogliono dimostrare un gruppo di poco accorti testimoni.
All’Assise vi aspetto. E tu, Giuseppe D’Auro, smetti di calpestare, ed oltraggiare la disgraziata anima di tuo figlio, addebitandogli una calunnia; da non trovare più poso nel grand’Oceano della Morte. Tuo figlio non ti ha mai di nulla parlato, e comunque non poteva mai dire ciò che tu vuoi abbia detto per aggravare la mia posizione; e ti giuro che rimasi di pietra quando il Pretore mi disse che il ferito era tuo figlio, essendo noi due vecchi amici, e mai nessun rancore fra noi era stato.
Mi spiace che io non volendo, abbia attristato i tuoi giorni, ma tu sii convinto che tutto fu causa della sciaguratezza di tuo figlio, e della sua ubriachezza, come risulta dal processo.
Quali interessi, e quali bisogni avevo di domandare denari in quell’ora? E poi da tuo figlio che io non conoscevo? E come indirizzare a casa uno sconosciuto ubriaco, dove giaceva in letto mia moglie, e più due figli? Mia moglie non avrebbe domandato a tuo figlio chi lo aveva mandato, cosa cercava, che pretendeva? Sappi che io non ho avuto mai e poi mai bisogno di cercare denari in prestito da chicchessia, per nessuno affare né per altri raggiri. Anzi, se qualcuno avanzasse denari in contanti prestatimi, in 24 anni che sono a Viareggio, ti prego rimettermene una copia, che li possa un giorno saldare, perché ….io … non voglio debiti.
Lucca, 6 Dicembre 1906 .
Devotissimo, Burchi Arcangelo
La prima udienza del processo vene fissata per il 17 gennaio 1907. Arcangelo Burchi venne difeso dall’avv.Renato Macarini Carmignani. Dopo appena una settimana, la corte lo condannò a 16 anni di reclusione oltre alle pene accessorie. Il ricorso in Cassazione, proposto dal difensore il 27 gennaio 1907, venne rigettato il 25 aprile dello stesso anno. Scontata la pena tornò a Viareggio dove visse con la moglie, Firma Annunziata, fino alla di lei morte che la colse nel Civico Ospedale il 9 maggio del 1923, all’età di 44 anni. Arcangelo Burchi morì il 9 dicembre 1929, alle ore 9 di mattina, a 67 anni di età.
dal capitolo XIII de ‘Il figlio del pastore’ di Lorenzo Viani:
L’assassino ebbe tant’anni di galera. Sulla porta della tettoia ci fu imbullettata una traversa di legno.
– Specchiati là – erano le parole che diceva misteriosamente mia madre quando affacciandosi sull’uscio di casa nostra fissava la tettoia.
“Terracina” morì di crepacuore.
Pochi giorni dopo si rivide mortificata mortificata, tutta stracciata, coi capelli pepe e sale, mezza cieca, la padrona della tettoia che se ne stava a prendere un po’ di sole sul fosso. I ragazzi non la conoscevano e i grandi la compativano.
Quando lui rivide aria, ricapitò al paese; gli occhi ardenti gli s’erano freddati sul viso slavato, senza baffi a quel modo pareva un cuoco d’ospedale con gli abiti imbucatati di fresco.
S’incontrarono sul fosso e si misero a parlare come due innamorati.
Dopo pochi giorni fu levata la spranga di sull’uscio della tettoia e i due si riaccasarono. Lei stava al sole come i gatti. Lui si ridiede alla bibita e il delitto tragittava nei suoi discorsi.
Tutti lo cominciarono a tenere a bada.
In “Collegio” aveva imparato il latino e sentenziava in quella lingua.
Un giorno, dopo molto tempo, lo incontrai ubriaco fradicio, sulla via del cimitero; nelle mani sudice stringeva un mazzo di crisantemi che nelle cadute ch’egli faceva s’erano tutti infangati. Pioveva come Dio la mandava. Sul soglio del cimitero si fece il segno della croce.
Entrò, si tolse il cappello, sverrinando da una tomba all’altra andò nel quadrato dei poveri. Posò il mazzo sopra una tomba. Raccolse un pugno di terra, la baciò e se la mise in tasca della giubba. Poi errò come un dissensato tra le tombe, sbrucò dei chiocciolini di sull’erbe bagnate, si mise in tasca anche quelli, raccolse una coccola di cipresso e se la mise in bocca come una cicca amara di fiele. Salutò l’ossario, e dopo aver letto a modo suo l’epitaffio in latino: – Et qui l’ossa umiliata esultabuntum – imitò la gran cassa: – Tum! – e uscì.
La mattina fu trovato a pezzi sulla via ferrata, le gambe s’erano afforcate sopra una rama di bianco spino, le braccia erano schizzate in un campo rosso e la testa era a dissetarsi entro una fossa.
La tomba su cui aveva posato i crisantemi motosi era quella della sua donna.

Permesso di sepoltura di ‘Angelo’ Burchi
F I N E